Abbiamo chiesto a Lara, mamma di Agnese, di raccontarci la storia della sua bambina.
Ne è venuto fuori un racconto denso di particolari importanti, spesso tristemente indicativi di una realtà che rifiuta la vita e si chiude dietro un muro di indifferenza e freddezza per non dover affrontare la sofferenza; una realtà a tratti smarrita di fronte alla determinazione di una mamma e di un papà che combattono per la vita del loro bambino. Ripercorrere quel cammino soffermandosi su alcuni particolari, costringe a delle riflessioni che, nel caso di Lara, lasciano, sovente, l’amaro in bocca e fanno comprendere in pieno la solitudine e l’ulteriore pena a cui vengono sottoposte le famiglie che decidono di rispondere alla diagnosi prenatale patologica, con un “Sì” alla vita.
Nel 2007 Lara e Paolo, genitori di Valeria, Flavia e Anna, rispettivamente di 8, 5 e 2 anni, scoprirono di aspettare un altro figlio. Fu, sì, una sorpresa, ma, in fondo in fondo, era anche un remoto desiderio chiuso del cuore di Lara. Guardando il test di gravidanza, tuttavia, Lara ebbe un triste presentimento a cui si aggiunse, nei giorni successivi, un sogno fatto nel corso di una vacanza sulle Dolomiti. Sognò Giovanni Paolo II che posava il suo sguardo intenso su di lei. Al risveglio aveva concluso che forse, visto che la data presunta del parto cadeva nella prima settimana di Aprile, il bambino sarebbe nato il 2 Aprile, ricorrenza della sua morte.
Al ritorno dalla vacanza, che aveva trascorso in tutta serenità, Lara si recò dalla ginecologa per la prima ecografia. La dottoressa le chiese se avesse intenzione di effettuare qualche esame invasivo, visto che era sulla soglia dei 40 anni. Nelle precedenti gravidanze la cosa non era mai stata presa in considerazione perché Lara la considerava un’indebita intromissione nel sacro e inviolabile territorio della vita e anche perché, qualunque fosse stato il responso, né lei né suo marito, avrebbero pensato di interrompere la gravidanza. Questa era sempre stata la loro idea, anche se vivere una certa situazione è ben diverso dal parlarne ipoteticamente; in quel momento erano del tutto ignari di quanto, anche le convinzioni più solide, possano vacillare di fronte al peso della sofferenza.
La ginecologa chiese a Lara come avrebbe agito se le avessero diagnosticato un’anomalia fetale e lei rispose, decisa, che se ne sarebbe occupata al momento giusto. Qualche giorno dopo, annunciando la nuova gravidanza al parroco che aveva celebrato il suo matrimonio, Lara sottolineò proprio la difficoltà che si incontra nel rifiutare un esame invasivo alla soglia dei 40 anni; è come andare contro corrente, perché in quella scelta è insita l’eventuale accettazione di un figlio non sano, e tale posizione si scontra clamorosamente con quella “sindrome del feto perfetto” che affligge la società attuale. La “perfezione” è diventata la conditio sine qua non che segna il confine tra la vita e la morte.
Dopo qualche giorno Lara iniziò a stare molto male: nausee, intensa acidità di stomaco, mal di testa, forti dolori addominali, problemi di digestione ed intestinali. Condizioni che non si erano verificate nelle precedenti gravidanze e che sembrava volessero continuare a sottolinearne la diversità rispetto alle precedenti.
Le altre figliolette intanto erano preoccupate di tutt’altre cose: bisognava comprare nuovi giochi perché non ce n’erano adatti ad un fratellino (nel caso fosse stato un maschietto).
Alla fine del primo trimestre di gravidanza, Lara e suo marito si recarono in ospedale per effettuare un’ecografia a cui decisero di aggiungere la misurazione della Translucenza nucale (un esame non invasivo). Era il 26 settembre, il giorno prima Lara aveva compiuto 40 anni ed in mente c’erano tanti progetti in vista dell’aumento dei membri della famiglia. Contestualmente, però, continuava ad avere strane sensazioni.
Appena arrivati in ospedale una giovane dottoressa li indirizzò verso la stanza dove avrebbero dovuto eseguire l’ecografia, dicendo che era quella sulla cui porta c’era il cartello con scritto “Screening del I trimestre”. In realtà sulla porta di quella stanza c’era un cartello che indicava la presenza del “Movimento per la Vita - Sezione di Ancona”, con relativo numero di telefono per cui, convinti di aver sbagliato, iniziarono a girare per il corridoio disorientati. Alla fine la dottoressa li andò a cercare spazientita, lamentandosi del fatto che sulla porta ci fosse il cartello sbagliato e sovrapponendo su di esso quello indicante lo “Screening del I trimestre”. Fu naturale per Lara chiedersi quale necessità ci fosse di coprire il cartello del Movimento per la Vita, considerato che, su quella grande porta, c’era tanto spazio da poter esporre entrambi. Le sembrò quasi che fosse un tentativo di distogliere la loro attenzione dal considerare eventuali proposte di chi, prima di ricorrere all’aborto, vuole percorrere tutte le strade possibili.
Entrarono nella stanza e, appena iniziato l’esame, l’ecografista le chiese perché non aveva fatto la villocentesi e Lara rispose che non era mai stata favorevole. La fece poi accomodare in un altro ambulatorio dove c’era un apparecchio più sofisticato e una dottoressa più anziana alla quale l’altra chiese conferma di ciò che aveva sospettato. Dalle loro parole sussurrate, si comprese la parola “aborto”. Lara pensò che il suo bambino fosse morto e subito si girò verso il monitor per vedere se il cuoricino batteva ancora ma, nello stesso istante in cui lo vide pulsare, la giovane dottoressa le disse: “Vede signora, la translucenza è molto aumentata, c’è una patologia gravissima. Se vuole può interrompere anche subito”. Lara si alzò seduta sul lettino pronunciando un secco “No!”. La dottoressa più anziana allora le disse che, se non voleva interrompere, le avrebbero detto tutto quello che c’era da fare per conoscere il problema del bambino, ma che, probabilmente, si trattava di un errore cromosomico o di una cardiopatia gravissima e, una volta operato, suo figlio avrebbe avuto solo il 30% di possibilità di salvarsi. In quel momento Lara non afferrò il concetto, perché quel 30% per lei era tantissimo. Così, un po’ ingenuamente chiese: “Ma … non prendete le misure del bambino?” Il tono della risposta e lo sguardo che si dettero le dottoresse furono più eloquenti del loro distaccato assenso. Quel bambino, ai loro occhi, era inutile e, in quel momento, Lara si era sentita più inutile di lui.
Per scoprire la patologia da cui era affetto il bambino gli venne consigliato di eseguire una villocentesi; lo scopo, però, ora, era quello di individuare la patologia per vedere se era possibile fare qualcosa per risolverla: quindi conoscere per curare e non per eliminare!
Per effettuare l’esame, occorreva comunque l’impegnativa di un ginecologo che lavorasse in una struttura pubblica. Lara si recò, allora, nell’Ospedale Civile della sua città. La prima ginecologa che trovarono libera, lesse la motivazione della dottoressa di Ancona, restò in silenzio e poi pronunciò: “Non ho il blocco delle impegnative”.
La seconda ginecologa volle accertarsi di persona e rifece l’ecografia. Seguirono lunghi minuti di silenzio assoluto. Nel frattempo, sul monitor, Lara vedeva il suo bambino muovere le dita delle manine a raggiera. Fu l’ultima volta che le vide aperte. Poco tempo dopo le avrebbe strette entrambe a pugno, per non riaprile mai più. Finita l’ecografia, mentre si apprestava a compilare l’impegnativa, la dottoressa, visibilmente turbata e scura in volto, parlò: “Signora perché vuole fare la villocentesi?”, “Per sapere cosa ha il mio bambino” , rispose Lara, “Ma cosa la fa a fare, signora, per dare un nome alla patologia? Tanto questo muore!”. “Questo”. Lo aveva chiamato “Questo”. Le chiese poi se avesse altri figli come se, in quel caso, perderne uno avesse meno valore.
Nonostante quel giudicare, più o meno esplicito, che in momenti della vita così delicati, diventa tagliente, Lara e Paolo non si fermarono.
Decisero di recarsi da un altro ginecologo, dichiaratamente cattolico, nella speranza che potesse dar loro una parola di conforto. Così, la mattina dell’appuntamento per la villocentesi, andarono prima da lui. Gli mostrarono l’ecografia e la sua “rassicurante” risposta fu: “Davanti a questa ecografia, tutte le mie convinzioni crollano. Se vuole abortire, ha tutte le carte in regola per farlo”.
La soluzione era, dunque, il cosiddetto aborto terapeutico, quello che non si sa per chi sia terapeutico, quello che la legge consente di effettuare fino alla 22esima settimana.
Reduce dall’ennesima delusione, Lara andò ad eseguire la villocentesi. Le infilarono l’ago nel sacco amniotico, e vide il bambino ritrarsi in un angolo e restare immobile per tutto il tempo. Tolto l’ago, si riposizionò come prima e ricominciò a sgambettare. L’istinto di sopravvivenza era apparso davanti ai suoi occhi. Non era sano, ma era vivo! Eppure, nonostante tutto, dei cattivi pensieri cominciarono a farsi avanti.
Si può solo immaginare lo stato d’animo con il quale Lara e Paolo vissero quei giorni, in attesa dell’esito della villocentesi. Mentre Paolo era fermo nelle sue convinzioni, il “sì” di Lara fu più sofferto. Aveva molta paura. In cuor suo sapeva che era la risposta giusta, ma le sue certezze erano come onde che salivano e scendevano, come una marea inquieta. La sua debolezza più grande fu quella di pensare di non essere all’altezza di affrontare quella situazione da sola. Arrivò a sperare che suo figlio morisse in utero, perché così la croce sarebbe stata meno pesante, senza considerare che il Signore era con lei e non l’avrebbe dimenticata.
Intanto arrivò l’esito della villocentesi. Una voce imbarazzata dall’altra parte del telefono annunciò: “Trisomia 18”. Una cromosomopatia gravissima.
Il ginecologo che seguiva la coppia si dichiarò molto dispiaciuto alla notizia della diagnosi, ma, allo stesso tempo, disse loro che se avessero portato avanti la gravidanza non avrebbe potuto seguirli. Li aveva lasciati soli!
Un pomeriggio cercando su internet, Lara si imbatté in un sito in cui si parlava di un certo Prof. Noia e lesse alcune commoventi testimonianze di genitori che avevano scelto di accogliere i loro bambini malati. Quando il marito tornò dal lavoro gliene parlò. Due giorni prima di recarsi a Roma dal Prof. Noia, a cui avevano deciso di rivolgersi, fissarono un appuntamento con un rinomato Centro di Diagnosi Prenatale di un’altra città, a capo del quale c’è un famoso luminare. Volevano sapere con certezza quali malformazioni avesse la loro bambina (dalla villocentesi avevano saputo che era una bambina), dato che la Trisomia 18 può implicare svariate anomalie. L’ecografia, presso il centro, durò ben quarantacinque minuti: una dottoressa super professionale e bravissima ad effettuare la giusta diagnosi, ovvero atresia dell’esofago, un cd delle riprese in regalo, ma, infine, la domanda: “Scusate…ma…voi che dubbio avete?” Spiegarono che il loro dubbio era che forse non doveva essere loro la decisione di stabilire quando la bambina dovesse morire. Silenzio. Lo sguardo perplesso e freddo, poi la dottoressa disse loro che questi bambini muoiono presto e che, se vivono, vivono molto male. Seguì la conferma di quanto detto dall’ecografista, da parte del famoso “luminare” che contattarono telefonicamente: “Signora, al suo posto non mi farei un dubbio etico. Per una sindrome di Down me lo farei, ma per una trisomia 18, no”. Ma non erano forse entrambe persone, un bambino down e la loro bambina?
Nel frattempo, arrivò la telefonata dall’ospedale Salesi per sapere che decisione avessero preso. Lara rispose che stava effettuando delle visite fuori sede perché volevano fare tutto il possibile. Di fronte a quella risposta, venne letteralmente rimproverata al telefono: “Ma cosa va a fare a Bologna o a Roma… Cosa pensa che le dicano! Quindi lei… Lei è ancora incinta! Non rimandi la data dell’aborto… Se aspetta sarà come un parto!” “Ma io non ho ancora deciso se abortire o no…” “Ma come, cosa dice! Cosa fa? Fa nascere una bambina così?” “Ma io sono un’insegnante di sostegno da diversi anni incontro bambini disabili…” Dopo aver lanciato un’espressione quasi terrorizzata, si chiuse il telefono bruscamente. Lara venne quasi meno. Paolo la tranquillizzò, ma erano arrivati al limite. Disse al marito: “Portami da Noia e poi basta. Non voglio ascoltare più nessuno”. Da lì iniziò spesso a piangere amaramente per il forte dispiacere.
Il 25 ottobre entrarono per la prima volta nello studio del Prof. Noia il quale gli chiese subito: “Come si chiama questa bambina?”. Rimasero imbambolati perché non avevano assolutamente pensato ad un nome. Tutti la appellavano con la patologia, nessuno le aveva dato dignità umana...quasi quasi neanche loro. Il Professore guardò le foto dell’ecografia effettuata a Bologna e decise di rifarne personalmente un’altra, ma non disse: “Voglio fare di nuovo l’ecografia”, disse: “La voglio vedere io questa bambina e mi raccomando, le dovete dare un nome al più presto”.
Dopo la sua osservazione, gli comunicò che si trattava di un feto terminale, di una bambina che sarebbe vissuta molto poco. Poi, dopo avergli fornito tutte le informazioni scientifiche, propose loro di accompagnare la bambina per la vita che il Signore le avrebbe donato, aggiungendo che si trattava di un cammino molto duro, di una strada in salita: “Sarà una croce e la croce non la dovete scansare, la dovete abbracciare, ma io camminerò con voi”. Non erano più soli.
Lara racconta che paradossalmente, uscirono dallo studio felici della decisione di portare a termine la gravidanza e scelsero subito il nome della bambina, Agnese, che significa pura, perché quella figlia non avrebbe mai conosciuto il peccato.
Qualche giorno dopo Lara ebbe delle perdite di sangue e, non potendo partire per Roma all’improvviso, contattò il suo ginecologo di sempre, per chiedergli se poteva effettuare un controllo ma, con forte dispiacere, dovette rilevare che il dottore trovò tutte le scuse possibili affinché non si recasse nella struttura dove prestava servizio. Allora si mise a letto nella speranza che la sua condizione migliorasse.
L’ecografia morfologica del quinto mese era stata da tempo prenotata ad Ancona ed il prof. Noia suggerì di confermare l’appuntamento. L’esame ribadì l’atresia dell’esofago, ma rilevò, con stupore del medico ecografista, che oltre ad un ritardo di crescita, Agnese non aveva i dismorfismi tipici della trisomia 18 (i lineamenti del suo viso erano perfetti, così come i piedini), né si evidenziavano anomalie cardiache (come già intuito dal Prof. Noia). Quella mattina, durante l’ecografia, entrarono nella stanza due giovani ginecologhe: una, gettato lo sguardo prima sul monitor e poi su Lara e Paolo, sgranò gli occhi come se avesse di fronte una coppia di poveri illusi; l’altra si sorprese moltissimo di incontrarli di nuovo. Era la giovane dottoressa che aveva eseguito lo screening del I trimestre. Donò a Lara un bellissimo sorriso quando scoprì che non aveva interrotto la gravidanza. Comunque si sentì in dovere di darle una delucidazione: “Signora lo sa che questa gravidanza ha un’evoluzione imprevedibile, che lei potrebbe partorire da un momento all’altro?”. “Sì, so tutto”, rispose. E lei le sorrise di nuovo, compiaciuta. Chissà se in quel momento la serenità di Lara le fece vacillare la convinzione che l’interruzione volontaria fosse l’unica strada da intraprendere.
Intanto la piccola Agnese sgambettava continuamente specie quando la mamma si sedeva vicino a Valeria, la sua sorellina, per ascoltarla suonare al pianoforte. In quei momenti la piccola iniziava puntualmente a “danzare” nella pancia.
Poco prima di Natale, Lara e Paolo, si recarono ad Ancona presso lo studio del ginecologo “cattolico” che avevano incontrato il giorno della villocentesi, in quanto serviva un medico di appoggio presso una struttura ostetrica di livello, meno distante di Roma, nel caso iniziasse improvvisamente il travaglio durante il periodo festivo. Fu molto disponibile, ma ci tenne ad avvisarli dell’ostilità del suo ospedale verso un certo tipo di scelte. Poi chiese: “Che cosa le ha detto il Professor Noia, come l’ha convinta a proseguire la gravidanza?” E Lara rispose: “Il Professore ci ha proposto di accompagnare nostra figlia per i giorni che il Signore vorrà donarle”. Rimase in silenzio, poi replicò: “Una scelta impegnativa”. “Anche l’altra scelta sarebbe stata impegnativa” - rispose Lara. “Sì, ma con l’altra scelta avrebbe risolto prima” commentò. L’espressivo silenzio di Lara lo imbarazzò e il dottore si affrettò a distogliere lo sguardo dal suo.
Subito dopo Natale, Lara fu ricoverata al Policlinico Gemelli per tentare un’amnio-riduzione che poi i medici scelsero di non fare perché si accorsero del forte rischio di indurre il parto e di accorciare ancora di più i giorni di vita ad Agnese.
Il Policlinico Gemelli! Forse era quello il significato del sogno fatto in vacanza sulle Dolomiti, il collegamento tra la sua vita e Giovanni Paolo II.
Paolo rimase a San Benedetto con le tre bambine, ma ogni due o tre giorni andava a Roma a trovare Lara. Il giorno dell’Epifania, lo trascorsero tutti e cinque al Policlinico. Alla loro partenza, Lara si recò nella cappella dell’ospedale per la Santa Messa. Dopo aver cenato, si coricò per riposare e la mattina dopo, si svegliò in preda ai dolori del travaglio.
Per Lara era stato un percorso estremamente difficile e aveva, con molta fatica, dovuto rinnovare il suo “Sì” ogni giorno. Quel verdetto: “Trisomia 18”, era un pensiero fisso che l’accompagnava costantemente. Le martellava in testa e l’accompagnò anche in sala parto: “Guardate, che mia figlia ha la Trisomia 18”, ripeteva, come a reclamare un’attenzione ancora maggiore per una bambina che ne aveva così tanto bisogno. “Signora, non si preoccupi, lo sappiamo”, risposero con un tono comprensivo.
Fu un parto molto veloce, con tutta l’amorevole assistenza necessaria. La Madonna, a cui Lara si era affidata, si confermò fedele.
Sono passati otto anni da quel giorno. A differenza delle sue tre sorelline, oggi adolescenti, nelle quali la vita sta esplodendo, per Agnese la vita è durata un attimo, che non le è stato però negato, prima di entrare nell’eternità.
Agnese Graci è nata all’alba di lunedì 7 gennaio 2008 nella sala parto “Camelia” del Policlinico Gemelli di Roma a 28 settimane compiute.
Lì è stata battezzata e da lì è tornata nelle braccia del Padre che ce l’ha donata.
Il suo funerale si è svolto lunedì 14 gennaio 2008 nella Chiesa di San Pio X a San Benedetto del Tronto ed è stato celebrato da don Vincenzo Catani che per anni l’ha poi ricordata, di sua spontanea volontà, nella messa vespertina dell’ultima domenica del mese.
È sepolta nel “Campo degli angeli” del cimitero della città. Sulla sua croce bianca, il versetto di Geremia:
“Prima di formarti nel grembo materno, ti conoscevo, prima che tu uscissi alla luce, ti avevo consacrato”.