“(Gesù) Passando vide un uomo cieco dalla nascita e i suoi discepoli lo interrogarono: «Rabbì, chi ha peccato, lui o i suoi genitori, perché egli nascesse cieco?».
Rispose Gesù: «Né lui ha peccato né i suoi genitori, ma è così perché si manifestassero in lui le opere di Dio. Dobbiamo compiere le opere di colui che mi ha mandato finché è giorno; poi viene la notte, quando nessuno può più operare. Finché sono nel mondo, sono la luce del mondo». Detto questo sputò per terra, fece del fango con la saliva, spalmò il fango sugli occhi del cieco e gli disse: «Va' a lavarti nella piscina di Sìloe (che significa Inviato)». Quegli andò, si lavò e tornò che ci vedeva” (GV 9, 1.7).
Gesù “passa”. Il Vangelo ci mostra come, negli anni della sua vita pubblica, Gesù sia instancabile nella sua missione: lo troviamo nei villaggi, nelle sinagoghe, nelle case, sui monti, lungo fiumi, presso i laghi o in riva al mare… per condividere, annunciare, insegnare, guarire dalle malattie, liberare dai demoni, sfamare, consolare, servire, rimettere i peccati. Sempre in mezzo a noi, in continua donazione di Sè. Talvolta gli evangelisti annotano che per rispondere alle continue richieste di aiuto, Gesù è costretto a saltare il pasto, viene svegliato nel sonno, interrotto nella preghiera.
Ma quello che ci commuove, in questa pagina in particolare, è che, anche nel semplice passaggio da un luogo all’altro, Gesù non perde occasione per amare: anche la strada percorsa negli spostamenti diventa un luogo dove Gesù incontra, converte e salva. Ogni attimo è giusto per ripetere al Padre quell’ “Eccomi Signore, manda me” che lo rende sempre pronto ad esser-ci per ogni suo figlio. Nel passare, che è sempre un passare accanto, ancora una volta constatiamo che, come ci ha detto più volte in questa Quaresima papa Francesco, in Gesù l’amore di Dio si esprime nella vicinanza.
Stavolta poi, sappiamo dal racconto evangelico, che hanno appena cercato di lapidarlo. A buon diritto Gesù avrebbe potuto scegliere di starsene per conto suo, di rifugiarsi in qualche luogo solitario, di non volerne più sapere di questa gente che lo rifiutava e voleva la sua morte; come fece ad esempio il profeta Elia, il quale si ritirò sul monte e si nascose nel buio della grotta quando il popolo, ostinato nel non voler ascoltare la sua voce, intendeva ucciderlo. Gesù, invece, nel rifiuto, non pensa a salvarsi ma a salvare, non si ripiega sulle sue paure e amarezze, ma si piega su di noi. Gesù non si isola, resta ancora tra noi, passa ancora in mezzo a noi.
E in questo episodio Gesù passa proprio come passò Dio davanti alla grotta di Elia, perché - e questa è la differenza che il racconto ci spiega - Lui non è un novello Elia, Lui non è un semplice profeta che attende il passaggio del Signore. Lui è il Signore che passa.
“Ed ecco il Signore passò”, si legge nel primo Libro dei Re. Si avverte in queste parole divine tutta l’intenzionalità di Dio, che sfugge al controllo umano. E come Dio con Elia, anche stavolta Gesù nella sua libertà decide, per un motivo imponderabile, ma certo non casuale, di passare di là, di fare quella strada, quel giorno a quell’ora. Perché “il Vento soffia dove vuole”.
E per accorgersene occorre prontezza e discernimento. Perché, come Dio con Elia, anche Gesù con il cieco, passa senza rombi di tuono o colonne di fuoco. Piuttosto “come una brezza leggera”. Gesù passa discretamente, in anonimato. Senza essere annunciato. Confondendosi tra gli altri, come uno di noi. Non basta trovarsi al posto giusto nel momento giusto, occorre anche riconoscerlo.
Come lo riconobbe l’altro cieco, per esempio, quello di Gerico, che appena si accorge che Gesù sta arrivando, inizia a gridare “Figlio di Davide, Gesù, abbi pietà di me!”.
Il cieco di questo episodio, invece, non supplica, non invoca il suo nome, non chiede la grazia. Sembra non conoscerlo ancora, non aver mai sentito parlare di Lui e quasi non accorgersi affatto del suo passaggio.
Questo cieco è come chi non ha ancora veramente conosciuto l’amore di Dio … è come noi quando nelle difficoltà ci sentiamo soli, perché non crediamo che Lui sia accanto a noi davvero; quando non preghiamo, perché non crediamo che Lui ci ascolti davvero; quando ci mettiamo a mendicare aiuti umani piuttosto che affidarci e confidare in Lui, perché non crediamo che ci aiuterà e interverrà davvero.
Eppure, ecco il Signore passa. È già affianco a noi. Questo è l’evento che può cambiare ogni cosa. Come per Elia allora, anche per il cieco nato del vangelo, come pure per ognuno di noi. E noi rischiamo di mancare l’occasione. Di non approfittarne. Di non rendercene neanche conto. Bene diceva Sant'Agostino: “Ho paura del Signore che passa, senza che io me ne accorga”.
Tuttavia questo episodio evangelico ci riempie di speranza perché ci mostra proprio, più ancora che il miracolo della vista, come Gesù si affianchi al cieco e lo conduca gradualmente dalla non conoscenza di Lui alla pienezza dell’incontro, faccia a faccia. Ed è stupendo seguire tutti i passaggi di questa progressiva rivelazione personale, in cui possiamo intravedere anche il cammino di fede che ogni anima può compiere, guidata da Gesù.
Gesù “vede”. Il presupposto di questa nostra speranza è che, a fronte delle nostre cecità, Gesù vede. La sua misericordia compensa la nostra miseria. Come dice il Vangelo, infatti, Gesù “passando, vide”.
Si può dire che Gesù è Colui che vede colui che non vede. Gesù è “la Luce del mondo” che incontra il buio. È la Sapienza che incontra l’ignoranza. È il Re che incontra il mendicante. Gesù guarda quell’ uomo che non può ricambiare il suo sguardo. Gesù pone tutta la sua attenzione su chi appunto non si accorge di Lui. Ancora più al fondo, Gesù ama ardentemente colui che verso di Lui è ancora del tutto indifferente.
Oh Sì, Gesù lo vede. E in un istante vede tutto: vede la persona, vede la sua sofferenza presente, vede la sua storia passata, vede ciò che sta per accadere per lui e la sua missione per la sua gente e per ogni generazione futura che avrebbe letto come noi oggi questa pagina di vangelo.
Anzitutto, infatti, l’evangelista dice che Gesù vede “un uomo”. Non dice che vede un cieco. Ma vede un uomo che è cieco. In questa sfumatura c’è una differenza sostanziale: Gesù vede prima la persona della malattia. La persona per Gesù è più grande della malattia che in quel momento l’affligge. Il suo valore e la sua unicità sono molto più importanti del suo limite, del suo difetto, della sua disabilità. Va oltre le apparenze. E anche se l’uomo è lì, in terra, povera, deforme, sporca e avvilita, inutile ed emarginata, Lui lo vede nella dignità di figlio di Dio con cui lo ha generato, nella bellezza originaria nella quale lo ha creato, nella santità a cui lo ha destinato. Per questo è prezioso ai Suoi occhi, lo guarda con rispetto e infinito amore.
Certamente Gesù vede anche la sua malattia: vede che quest’uomo “era cieco”. Ma questa condizione attuale è ulteriore motivo di amore, di un amore preferenziale da parte di Gesù, che davanti ad ogni nostra infermità, come sappiamo da tanti episodi riportati nei vangeli, si commuove profondamente e si fa carico della nostra sofferenza.
Gesù vede anche tutta la sua storia di malattia: il vangelo precisa che l’uomo è cieco “dalla nascita”. Questo dettaglio non dice solo della gravità e della irreversibilità della malattia congenita (anche al fine di far risaltare la grandezza del miracolo fisico che seguirà) , ma dice anche di un peso schiacciante portato giorno dopo giorno, fin da quando era neonato, e poi bimbetto, e adolescente e giovane … un dolore che è cresciuto con lui, impedendogli di conoscere il proprio volto e quello dei suoi genitori, di scoprire la bellezza della natura e il mondo circostante, di giocare e di farsi degli amici, di innamorarsi e di mettere su famiglia, di lavorare e di sentirsi socialmente utile e rispettabile. Un dolore che probabilmente ha scavato in lui tanta tristezza e rabbia, e che forse lo ha anche allontanato da Dio. Su tutta questa sofferenza Gesù posa i suoi occhi, non con commiserazione ma con profonda compassione.
Gesù “risponde”. Questo sguardo sull’infermità, così illuminato dall’amore, differisce infatti completamente da quello predominante nella cultura del tempo. Una “cultura dello scarto”, come diremmo con Papa Francesco. E fornisce una interpretazione della malattia del tutto nuova che ci apre alla “cultura della cura”.
Gli altri Giudei del tempo, infatti, spiegano la cecità come una diretta conseguenza del peccato, con la conseguenza che la loro posizione verso il cieco risulta fredda, priva di empatia, gravata da un giudizio morale che tiene la distanza e genera disprezzo. In loro non si attiva nessuna iniziativa positiva, nessun gesto di prossimità. Persino i discepoli risentono di questa mentalità e appaiono solo preoccupati di stabilire di chi è la colpa: «chi ha peccato, lui o i suoi genitori, perché egli nascesse cieco?». Anche noi con loro, spesso davanti alla malattia, invece di aprire il cuore, per prima cosa ci chiudiamo nei perché: “perché a me”, “perché a lui” ...e nel tentare di risponderci ricerchiamo un colpevole, che può essere – a seconda dei casi - la persona stessa: “se l’è cercata”; il destino: “è sfortunato”; o peggio, Dio stesso: “Dio lo ha punito!” … parole pesanti come pietre che avviliscono, scoraggiano, umiliano e gettano nella disperazione.
Gesù invece, tutto compassione e misericordia, in questo episodio offre una risposta completamente diversa: «Né lui ha peccato né i suoi genitori». Nello sconcerto generale possiamo immaginare che tutti (e noi con loro) si siano chiesti: “E allora perché la malattia?” Ci può essere dunque anche una sofferenza del giusto? E se è così, l’interrogativo si fa ancora più drammatico: “perché la sofferenza innocente?”.
Ed ecco che Gesù offre la sua risposta alla nostra domanda sul senso del dolore: «è così perché si manifestassero in lui le opere di Dio». Dunque è esattamente il contrario di quello che pensavano i discepoli (e noi con loro): la malattia in questo caso non solo non manifesta il peccato, ossia l’opera del male, ma addirittura diventa occasione perché Gesù possa rivelare l’amore di Dio, possa manifestare la grazia, compiendo le opere del Padre.
L’affermazione capovolge lo stato d’animo del cieco e dei presenti. È come un raggio di luce che scalda e rallegra, incoraggia e rialza. Le sue parole aprono nuovi orizzonti e fanno del cieco, fino ad un istante prima reietto e maledetto, una creatura amata, visitata dalla grazia, un’esistenza “in” cui Dio si manifesta, una lampada posta in alto per far luce a tanti altri. Di fatto potremmo anche dire un beato, che testimonia la grandezza di Dio e diventa motivo per tutti di ringraziare, lodare, benedire e glorificare il Signore.
Gesù “fa”. Quindi, spinto dall’amore, Gesù agisce e compie quanto ha appena annunciato. Non aspetta che il malato glielo chieda, perché è il Padre stesso che gli ha affidato questo compito. Infatti spiega ai suoi: “Dobbiamo compiere le opere di Colui che mi ha mandato”. Gesù ci mostra che grazie alla prossimità, di Dio e dei fratelli - non a caso usa il plurale, li coinvolge, “dobbiamo compiere” e in questo c’è una esortazione alla conversione dei suoi (e nostra con loro) - anche nella sofferenza, e specialmente nella sofferenza - si può conoscere Dio, si può fare esperienza dell’amore di Dio, si può ricevere il miracolo della conversione, e, se Dio vuole, anche quello della guarigione. Certamente ci si può santificare.
Quel momento di buio e di difficoltà, di malattia fisica o di tormento interiore, di lutto o di persecuzione, di aridità o di debolezza, proprio quel momento, può diventare il tempo favorevole, dell’incontro più importante della nostra vita, l’attimo dopo il quale niente è più come prima. Quel momento di cui potremo dire in seguito anche noi “ed ecco il Signore passò”.
E se c’è una caratteristica in questa azione di Gesù è la determinazione che quasi diventa una fretta di agire, un’urgenza di portare a compimento ciò per cui il Padre lo ha inviato nel mondo, l’opera che ha iniziato, una sollecitudine ad approfittare del tempo che gli resta e che sente che si sta avvicinando al termine: “finché è giorno … finché sono nel mondo”.
In questa fretta risentiamo l’eco della fretta di Maria che corre dalla cugina Elisabetta (e ancora corre presso ciascuno di noi); e rileggiamo la premura che sentirono gli apostoli dopo la Pentecoste per portare la buona notizia a tutte le genti fino ai confini del mondo; sentiamo l’urgenza che mosse molti altri discepoli dopo di loro nei secoli, i santi, i fondatori, tutti coloro che sanno leggere, in Cristo, la loro vita terrena come una missione d’amore, e che non sprecano un attimo del tempo loro concesso. E contagiati da questo slancio generoso a consumarsi per i fratelli, anche noi possiamo sentirci sospinti ad avvicinarci a coloro che soffrono, come tanti piccoli “cireneo”, ripetendo “Caritas Christi urget nos”.
Ma qual è questa opera del Padre che Gesù ha fretta di compiere con i suoi discepoli (e noi dietro a loro)? Si limita forse al miracolo fisico o c’è di più? Come in molte altre occasioni, compreso il citato episodio del cieco di Gerico, Gesù avrebbe potuto guarire solo con la Parola (“Va la tua fede ti ha salvato”). Ma qui invece compie dei gesti che alludono, oltre al dono della vista, al dono della vita stessa: richiamano infatti l’atto creativo compiuto da Dio nel formare Adamo (unire la vita divina – simboleggiata dal soffio o dalla saliva - con la natura umana rappresentata dalla terra), a voler significare che con la vista, Gesù gli vuole rendere anche una vita nuova. La vita della fede in Lui. Questa valenza della vista come vita, è sottolineata nel racconto anche dall’ elemento dell’acqua, come leggiamo subito dopo.
Gesù “invia”. Per portare a compimento quest’opera nel cieco nato, Gesù, Medico dei corpi e delle anime, ha bisogno però della sua collaborazione. Pur prendendo l’iniziativa per primo, non lo tratta paternalisticamente, come un soggetto passivo. Attiva le sue risorse, la sua parte sana: le sue gambe. E gli chiede di fare la sua parte per aderire alla cura. Non lo guarisce senza la sua partecipazione. Usando un’espressione conosciuta dagli operatori sanitari, potremmo anche dire che gli propone un’alleanza terapeutica. Caratteristica dell’amore di Dio è infatti la libertà, che lascia a noi la scelta di rifiutarlo o di accoglierlo. Come dice ancora Sant'Agostino: “Dio, che ti ha creato senza di te, non può salvarti senza di te”.
Quindi, dopo avergli spalmato il suo fango sugli occhi, lo manda verso l’Acqua: “Va' a lavarti “. E in questo caso l’acqua è quella della piscina di Siloe, che vuol dire dell’Inviato, come sottolinea l’evangelista. Ma l’inviato da Dio è Gesù. Dunque il cieco è invitato a bagnarsi in Gesù, che è la Vita, e la sua purificazione allude chiaramente al battesimo in Cristo, alla nuova nascita alla vita eterna; e allo stesso tempo – a me pare – alla sua nuova missione di inviato di Gesù, per la testimonianza che sarà chiamato a dare da ora in avanti, sull’amore di Dio e sull’azione della Grazia.
Gesù “salva”. In questo punto il racconto crea in noi una trepidazione. Che cosa farà adesso quest’uomo cieco che finora ha taciuto in un angolo della scena senza alcun ruolo apparente? Approfitterà di questo incontro inatteso per entrare in questa alleanza e aprire i suoi occhi oppure si rifiuterà di fare quanto il Signore gli chiede, restando nella sua condizione miserevole? In questo momento ci vengono in mente tutte le nostre notti, tutti i nostri dubbi, tutte le nostre tentazioni, tutte le nostre ferite, tutte le preoccupazioni, tutte le nostre le paure, tutte le nostre malattie. Ebbene, getteremo in Lui tutte le nostre sollecitudini come ci ha chiesto di fare? O ce le terremo strette strette, persistendo nel nostro buio?
Con grande gioia, vediamo che l’uomo senza nome – in cui ognuno di noi si può ritrovare - decide per la prima soluzione e così compie con Gesù tutti i passaggi dal buio alla luce, dalla morte alla vita, dalla tristezza alla gioia.
Egli infatti passo dopo passo si lascia accompagnare da Gesù che lo porta gradualmente alla conoscenza di Dio, facendogliene fare poco a poco esperienza: quando Gesù si avvicina, l’uomo non rifiuta la sua presenza, non si distanzia. Poi, quando Gesù parla, l’uomo ascolta la sua parola. Quindi, quando Gesù opera sul suo corpo, l’uomo non oppone resistenza, lo lascia fare docilmente. Infine, quando Gesù chiede la sua adesione, l’uomo si fida, obbedisce, si alza, va e torna … e a questo punto constata che di aver recuperato la vista fisica.
Ma non finisce qui. Interrogato dai conoscenti sull’accaduto straordinario, è costretto a raccontare ripetutamente la sua esperienza, e nel farlo – proprio grazie al contradditorio con chi non crede – riflette più profondamente su che cosa gli è successo, e su Chi è colui che ha incontrato. Se prima ne ignorava persino l’esistenza, adesso lo riconosce dapprima come colui che lo ha guarito; poi lo definisce come un profeta; quindi lo difende come un uomo di Dio.
È un cammino progressivo nella Verità e nella consapevolezza; e lui lo fa anche a costo di una nuova emarginazione, di una nuova derisione, di nuova sofferenza. La sua famiglia prende le distanze e i Giudei lo umiliano e lo cacciano dalla sinagoga. Ma lui accetta questo rischio, perché la straordinarietà di ciò che gli è capitato è più forte di tutto, perché Colui che ha incontrato è diventato più importante di tutti.
E a quel punto Gesù – che è la Porta - lo fa entrare in un altro Regno ben più importante di quello da cui lo hanno espulso; Gesù - che è il Buon Pastore - va a radunare ciò che altri hanno disperso. E non lo lascia solo neanche adesso. Lo cerca ancora, con tenerezza immensa, come si cerca la pecorella smarrita, e una volta trovato, si avvicina nuovamente a lui, guidandolo a compiere l’ultimo passaggio, quello della fede, che gli darà la pienezza della luce e della vita: “Gesù udì che lo avevano cacciato fuori; e, trovatolo, gli disse: «Credi nel Figlio dell'uomo?»
Ebbene quell’uomo che è di fronte a Gesù, non lo ritiene più uno sconosciuto; le sue orecchie hanno sentito la Sua voce, il suo corpo ha sentito il Suo tocco, e adesso anche i suoi occhi Lo possono vedere. Sa che grazie a Lui non è più costretto a stare a terra, fermo in un angolo, a chiedere l’elemosina. Ora è in piedi, con tutta la sua soggettività ritrovata, e anche la sua bocca adesso si apre alla parola; finalmente entra in colloquio con il Maestro e gli domanda: «Chi è, Signore, perché io creda in lui?».
A ben ragione Gesù gli può rispondere: «Tu l'hai già visto; è colui che parla con te, è lui». Gesù si rivela completamente, anche nella sua divinità. Questo ‘faccia a faccia’ dell’uomo con Dio è vertiginoso: Gesù lo invita a lasciarsi condurre, nello spazio di pochi minuti, dalla esperienza dei sensi esteriori all’esperienza mistica dei sensi interiori, dalla vista fisica alla vista spirituale con gli occhi della fede, che anticipa quella che sarà per noi tutti la visione beatifica di Dio in Cielo. Perché, certo, la guarigione dalla cecità è un grande segno, ma l’opera di Dio per eccellenza è un’altra: come aveva già spiegato Gesù qualche capitolo prima, sempre nel vangelo di Giovanni: “Questa è l’opera di Dio che crediate in colui che mi ha mandato”.
Ed ecco che l’uomo compie anche quest’ultimo passo. Infatti – continua il vangelo: egli disse: «Signore, io credo. E l'adorò». La sua cecità, anche interiore, è ora completamente guarita. E come Gesù ci vede e ci consce solo nell’amore, anche l’uomo nel vederLo, nel consocerLo, nel riconoscerLo, lo riama, anzi lo adora. E possiamo immaginare che nel cuore di quest’uomo sia esplosa un’esultanza pari a quella di Simeone che accogliendo Gesù nel tempio trentatre anni prima aveva esclamato “Ora lascia Signore che il tuo servo vada in pace perché i miei occhi hanno visto la salvezza!”.
Mentre i nostri occhi (con i suoi) si riempiono di lacrime, per questo incontro pieno e totale di quest’uomo con il Signore, ci incantiamo nello scambio dei loro sguardi, entrambi ora della stessa luce ardente, e cadiamo anche noi in ginocchio ad adorare in silenzio.
Gesù prende su di sé ogni cecità. Ma c’è un ultimo aspetto di questo brano che ci può accompagnare in questa quaresima verso la Settimana Santa. Con un inciso che sta in mezzo a questi versetti apparentemente come una parentesi, Gesù comincia a preparare i suoi a comprendere il passaggio della Croce. Inizia cioè a spiegare il valore redentivo della sofferenza innocente, che culmina con l’immolazione dell’Agnello senza macchia sul Golgota.
Partendo dal buio del cieco nato, infatti, Gesù annuncia l’arrivo di una notte che riguarderà anche Lui: “poi viene la notte, quando nessuno può più operare”. Fino a quel momento i discepoli lo avevano conosciuto come taumaturgo, come profeta, come maestro della dottrina, come il santo di Dio, come Figlio unigenito del Padre; nella sua umanità e divinità: come Via, Verità e Vita; come Luce del mondo… ma adesso Gesù comincia a farsi conoscere anche come il Servo sofferente, che di lì a pochi giorni, dovrà attraversare la notte dell’Abbandono; comincia a parlare loro di quel momento in cui la Sua Luce sarà tutta donata per noi e Lui sarà il Cieco; quando i suoi tesori di grazia saranno tutti effusi e Lui sarà il Mendicante; quando di Lui si dirà “Ecco l’uomo!” e la sua divinità sarà tutta nascosta, sembrando per un attimo come annullata, svuotata, assente (“Dio mio perché mi hai abbandonato”); quando il giorno si spegnerà e Lui sarà avvolto dal buio; quando la sua santità sarà tutta velata e Lui si farà per noi Peccato; quando la benedizione di Dio tacerà e Lui prenderà su di sé tutto il male fino a sembrare per noi Maledizione; quando la Vita sarà tutta consumata per noi e Lui scenderà nel sepolcro; quando l’Onnipotente sembrerà immobilizzato e Impotente; quando “nessuno potrà più operare” perché l’opera sarà tutta compiuta.
Allora, quando arriverà quel momento di notte oscura, quando la terra tremerà e il tempio sarà distrutto, quando lo vedranno tradito, insultato, torturato, percosso, deriso, abbandonato, febbricitante, pestato, tumefatto, sfigurato, dissanguato, esposto, morto e deposto nel sepolcro, anche allora lo dovranno riconoscere. E dovranno credere contro ogni evidenza e sperare contro ogni speranza. E dovranno amare l’Amore non amato, e adorare quella Croce santa che nessuno vuole guardare. (E noi con loro).
Allora guardando Lui, che ha perso ogni bellezza, si dovranno ricordare di questa esperienza e di quelle sue parole: «è così perché si manifestassero in lui le opere di Dio». E pensando a quel cieco che da Lui riebbe la luce e la vita, dovranno continuare a credere che Gesù è “la Luce della Vita” - tema presente in tutto il vangelo di Giovanni - e che liberamente Lui la dona e liberamente la riprende.
E anche se all’inizio saranno ciechi, vinti dal terrore, sgomenti per la crudeltà dei carnefici, dispersi nella fuga e nel tradimento, distrutti dal dolore della perdita, poi, ricordandosi di questo episodio (come anche di quello immediatamente successivo della resurrezione di Lazzaro), dovranno credere che la morte non è l’ultima parola, dovranno sperare nell’atto finale della più grande opera di Dio: nella manifestazione della Luce radiosa della Resurrezione. Anche se impauriti, dovranno ritornare alla “grotta” del Cenacolo, attendendo che il Signore passi di nuovo.
E così accade. Dopo tre giorni lo accoglieranno Risorto e ognuno potrà essere guarito dalla sua cecità e vedere di nuovo faccia a faccia il volto luminoso e vivo del Maestro. E adorarLo ripetendogli: “Mio Signore e mio Dio”. (E noi con loro).