La diagnostica prenatale è quel campo delle conoscenze ostetrico-ginecologiche che
utilizza determinate tipologie di indagini per verificare la presenza o meno di condizioni patologiche di vario tipo nel feto. Si tratta di una disciplina che negli ultimi decenni ha beneficiato di grossi sviluppi tecnologici che hanno migliorato costantemente le possibilità di conoscere lo stato di salute del nascituro e che hanno reso sempre più attendibili i risultati diagnostici.
Da queste affermazioni si evince un’idea comune legata alla diagnosi prenatale come strumento per verificare lo stato di salute del bambino finalizzato, in caso di presenza di una qualche patologia, solo ed esclusivamente all’interruzione di gravidanza (idea che, in effetti, e bisogna dirlo, fotografa abbastanza bene la realtà) con un uso sbagliato delle conoscenze diagnostiche.
Così intesa, la diagnosi prenatale acquisisce effettivamente una connotazione di progresso scientifico volto a favorire la cura delle vite più fragili: vedere per curare e non per eliminare.
È doveroso quindi approfondire il discorso e guardare bene alle finalità che devono guidare l’utilizzo della diagnosi prenatale. Come ben evidenziato dal Prof. Giuseppe Noia: “Se il fine della diagnosi prenatale, è quello di diagnosticare una problematica per poi curarla, essa si configura come una meravigliosa attuazione della scienza prenatale e della evoluzione della ricerca clinica verso il feto considerato un paziente a tutti gli effetti. Ma se il fine è quello di vedere se il feto è malato o ha qualche anomalia per poi potergli togliere la vita, questo è assolutamente da proscrivere, da rifiutare, perché la scienza prenatale deve dare la vita, deve dare speranza, non morte e disperazione”.
È chiaro che il rischio di utilizzo in senso eugenetico delle metodologie in questione permane ed è dunque assolutamente necessario, come è stato fatto in alcune istituzioni, fissare delle chiare linee guida da seguire. Tra queste vi è certamente la presenza di un’indicazione medica per il ricorso alla procedura diagnostica e la valutazione del rischio che deve essere accettabile e proporzionato. Ma ciò che più deve essere legato all’uso delle varie metodologie diagnostiche prenatali è certamente un counselling accurato sia prima che dopo la diagnosi.
L’informazione sulle varie metodologie diagnostiche è molto importante anche perché esistono rilevanti diversità, sotto più aspetti. Ad es. nell’ambito dei test non invasivi, diversa è la percentuale di attendibilità del risultato, così come diversi sono i costi, anche rispetto alle procedure invasive. Bisogna poi ricordare che i test non invasivi sono test di screening e non diagnostici. La differenza tra un test di screening e un test diagnostico (come l’amniocentesi o la villocentesi), sta nel tipo di risposta, in quanto il test di screening indica la probabilità di presenza o meno nel feto di determinate malattie, senza fornire una certezza al 100%, mentre il test diagnostico dà una risposta certa sulla presenza o meno della malattia stessa. Lo scopo di passare per lo screening, limitando il test diagnostico invasivo, è legato proprio all’invasività delle stesse e quindi al grado di rischio per il bambino. Occorre poi tener presente che, in caso di esito positivo, il risultato dello screening richiede la conferma e precisazione del test invasivo. Diversi sono, dunque, gli elementi da tener in considerazione e rispetto ai quali i futuri genitori devono acquisire consapevolezza.
Un altro aspetto molto importante è il counselling dopo la diagnosi. Non è, infatti, pensabile lasciare in mano ai futuri genitori una diagnosi di patologia senza metterli in condizione di comprenderla in tutti i suoi aspetti. È necessaria una consulenza professionale che consenta di confrontarsi con i genitori fornendo loro un’informazione medica accurata e completa, valutando insieme a loro le procedure terapeutiche necessarie, il rapporto rischio/beneficio e l’accettabilità etica.
Come ribadito dal Prof. Noia, tre sono gli obiettivi che il ginecologo deve sempre seguire nella sua attività clinica finalizzata sia alla difesa della vita nascente che all’impedimento di un accanimento terapeutico esecrabile: informare correttamente, ottenere una valutazione globale del benessere fetale e supportare il principio di dignità e sacralità della vita umana.
Ma cosa succede se il risultato di una diagnosi prenatale indica una condizione di terminalità del nascituro? Se non c’è spazio per alcuna possibilità terapeutica si può continuare a dare un indirizzamento rispettoso della dignità e della sacralità della vita nascente alla procedura diagnostica? La risposta è sì. In tali casi la proposta ai genitori è quella dell’“accompagnamento” del bambino fino all’esito naturale. L’accompagnamento è definito dal punto di vista medico come un atto terapeutico a tutti gli effetti e dal punto di vista genitoriale come naturale prosecuzione della maternità e paternità. Un percorso che, seppur considerato da alcuni improponibile, un’ormai ampia esperienza scientifica e testimoniale ha validato come fortemente consono e in linea con un’evoluzione naturale del percorso genitoriale; anche il CDC di Atlanta ha rilevato che ci sono sempre più genitori che desiderano accompagnare i loro figli gravemente malati fino all’ultimo momento.
La scelta dell'accompagnamento del bambino permette a molti genitori di affrontare la diagnosi prenatale patologica elaborandola non più come esperienza traumatica ma come una “speciale esperienza genitoriale”.