È il mese di gennaio, scopro di essere incinta
ma la gioia di quella notizia viene ben presto oscurata dall’esame del duo test, che serve a diagnosticare la probabilità di malformazioni del feto. Il risultato ci piomba addosso come una doccia gelata: alto rischio!
Da quel momento comincia un nuovo capitolo della nostra vita, un viaggio che ci vede ancora in cammino e che mai avremmo immaginato potesse trasformare completamente i nostri cuori.
Mi sottopongo alla villocentesi per sapere con certezza di che malformazione si tratti e, nell’attesa del risultato, io e mio marito cominciamo a riflettere sul da farsi, quasi come se riflettere sulla vita di quel feto rientrasse nella nostra potestà genitoriale.
Un bel giorno mentre preparo il pranzo, mi chiamano dall’ospedale dicendomi: “Il bambino ha qualche problema. Ha la trisomia 21”.
Ho riagganciato e ripreso ciò che stavo facendo.
Accettando quella vita ho inconsapevolmente liberato il mio cuore dalla paura, la mia mente dai pensieri molesti e anziché combattere contro qualcosa che non potevo cambiare, ho cercato di capire come potessi cambiare me stessa per fronteggiare quella situazione. Quello che non conosciamo ci spaventa, costituisce una minaccia per i nostri fragili equilibri al punto che anche l’arrivo di un bambino può mettere in crisi la nostra esistenza.
Certo, maschio o femmina purché sia sano; e se non lo fosse? In tal caso siamo padroni della nostra vita e di quella del nostro feto. In fondo meglio prima che dopo, meglio rispedirlo al mittente piuttosto che garantirgli un’esistenza indegna e di dolore.
Mio marito non riesce ad accettare l’idea di avere un figlio disabile, non potrà proteggerlo, né garantirgli una vita normale, ma il mio cuore attendeva proprio quel figlio così com’era e lo amava incondizionatamente.
Scelgo il suo nome: Gioele, Dio è il mio signore. Pian piano si apre un varco nel cuore di Paolo ed inizia ad entrare l’amore.
Il pancione cresce, Gioele sta bene, ma il 21 luglio scopriamo l’insorgere di una complicazione rara. Il giorno dopo mi ricoverano al Policlinico Gemelli di Roma e lì resterò un mese.
Il mio bambino nasce a 30 settimane, pesa 1 kg e mezzo ed è subito trasferito nella terapia intensiva neonatale. Il secondo giorno lo abbiamo fatto battezzare. Era dolcissimo con la sua veste bianca. Il suo cuore batterà per 12 giorni, per poi spegnersi tra le mie braccia:
“Gioele mio … ne abbiamo fatta di strada fin qui.
Il giorno in cui mi hanno detto che saresti nato con la Sindrome di Down, ho pensato che se il Signore ti aveva affidato a me, era per mostrarmi un mondo nuovo e meraviglioso che non conoscevo. E tu se nato proprio come ti ho sempre immaginato, bellissimo e forte … un immenso dono di Dio.
Hai lottato per la tua vita dal primo istante, sei stato coraggioso e hai lasciato a noi un messaggio che non potremo mai dimenticare:
“La vita è amore e va difesa e vissuta sempre!”
Molti penseranno che la tua breve esistenza sia stata solo dolore e sofferenza, ma io so bene che non è stato questo il senso dei tuoi giorni.
Gioele mio, sei nato per amore e hai vissuto nell’amore … dei tuoi genitori e del tuo fratellino che hanno avuto l’onore e il compito di accompagnarti in questo tuo percorso; della tua famiglia e di tutti gli amici che hanno instancabilmente lottato, pregato e sperato con noi; di tutti i dottori che hanno fatto il possibile per te …
Ma la vita, Gioele mio, non è nelle nostre mani. Dice il Signore: “Lasciate che i bambini vengano a me e non glielo impedite, perché a chi è come loro appartiene il Regno dei Cieli”. Ed ora tu sei lì … libero di correre e giocare nella felicità eterna.
Se potessi tornare indietro, sceglierei ancora di essere la tua mamma, Gioele mio. Io e il tuo straordinario papà ti ameremo per sempre e per sempre sentiremo la tua mancanza, ma sono certa che un giorno ci riabbracceremo”.
Gioele, il capitolo più bello e prezioso della nostra vita.
Con immenso amore,
mamma, papà e Christian